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Play, rec: quando l’immagine si crea e quando si documenta

Il fine giustifica sempre i mezzi? Quando l’immagine si crea e quando si documenta?
E’ indubbio che una immagine, pur non esattamente naturale possa ospitare in sé un significato e dei contenuti che per quanto creati all’uopo, permettano di esprimere un concetto. Anzi, chi escluderebbe che in molti casi sia proprio così?
Pensiamo ad una “pubblicità progresso” in tivù, è giusto quello che accade: una serie di scene che ricreano situazioni di vita per veicolare un messaggio.

Eticamente, dunque, nulla di strano all’orizzonte. Viene da domandarsi, a questo punto, se tutto ciò presenti dei confini, quando l’immagine smette di seguire lo scopo e prende vita propria distorcendo il messaggio stesso.
E’ esattamente quel che mi chiedo mi si presentano innanzi quelle immagini che, pur in costanza di una situazione di allarme sociale, di una certa crudezza, di forte connotazione, rendendomi conto che lo scatto è già un filtro creato dall’occhio di chi maneggia la macchina.
Certo, c’è poi il filtro di chi è al di là dell’obiettivo, ma concentriamoci per un attimo sull’attore e non sull’utente.

E così, è vero che il fine giustifica sempre i mezzi?

Non sempre, a mio parere. Lasciar marcire una mela per sensibilizzare gli individui a non sprecare il cibo è già sciupio. Si potrebbe obiettare che al sacrificio di una mela corrisponderà la salvazione di mille, forse milioni, ma subentra una questione morale, massimi sistemi esistenziali (un po’ il sistema dei sistemi di un noto film, se non Galileo!) ed infine, l’etica di chi preme il pulsante di scatto e magari riarma l’otturatore, ri-scatta, rivive, ripropone.
Il confine è davvero poco consistente, non argina, l’abilità di chi scatta sta nell’inquadrare un messaggio, senza calpestare l’anima del soggetto, la dignità dell’immagine risiede in questo.

Il compito del fotografo

In un fumoso mondo in cui la manipolazione è cosa di ogni giorno, il fotografo è chiamato ad un compito di alto profilo morale, la conservazione dell’anima, della sfera astratta dell’oggetto di inquadratura; la vita vera predomina sulla scelta di orientare l’obiettivo.

Pensiamo alle immagini di Tano D’Amico, che tanto insegna ancora oggi attraverso i suoi discorsi e, ancor più, a mezzo delle sue fotografie, in cui la scelta di cosa immortalare è chiara, emerge, così come si rilevano le sue idee socio-politiche, ma la realtà fissata sulla pellicola è vera, tangibile, senza filtri di sorta.
Non è ambiguo, concludo, che pure in considerazione di tutto quello che è scritto poco sopra, una certa misura di libertà debba essere assicurata al fotografo, il contrario sarebbe in ogni caso deleterio e opacizzerebbe la trasparenza che dovrebbe regnare durante lo scatto, senza però indulgere eccessivamente nella giustificazione del mezzo per un risultato, che potrebbe risentirne a sua volta, manifestando una problematica faziosità.

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